Giornalismo, diffamazione e querele: le proposte Figec Cisal in Commissione Giustizia del Senato

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“Bisogna mettere i giornalisti nelle condizioni di lavorare in un clima di serenità nel quale chi sbaglia deve giustamente pagare, senza però autocensurarsi”


Una delegazione della Figec Cisal, Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione, composta dal presidente Lorenzo Del Boca e dal componente della Giunta esecutiva Pierluigi Roesler Franz, è stata ricevuta  in audizione dalla 2ª Commissione Giustizia del Senato, presieduta da Giulia Bongiorno.

Il nuovo sindacato unitario dei giornalisti e degli operatori dell’informazione e della comunicazione ha fornito il proprio propositivo contributo alla complessa tematica della riforma della diffamazione a mezzo stampa e delle querele temerarie online dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale, n. 150 del 12 luglio 2021, che ha cancellato il carcere per i giornalisti accusati del reato fino ad allora previsto e sanzionato dall’art. 13 della legge sulla stampa. È una riforma parlamentare attesa ormai da decenni da una categoria, quella del giornalismo italiano, alle prese oggi con mille difficoltà oggettive di sistema, ma anche con mille attese legittime in termini di lavoro serio e regolare. Pierluigi Roesler Franz ha evidenziato quanto da tempo sostenuto dal segretario generale della Figec Cisal, Carlo Parisi, ovvero che «libertà di stampa non è licenza di diffamare. Ma bisogna mettere i giornalisti nelle condizioni di lavorare in un clima di serenità nel quale chi sbaglia deve giustamente pagare, senza però autocensurarsi preventivamente nel timore di pesanti ripercussioni, soprattutto in sede civile».

È stato un incontro che la Figec Cisal ritiene molto positivo e proficuo, sia per il clima di estrema cordialità in cui si è svolto, ma soprattutto perché viene ufficialmente riconosciuta a tutti gli effetti da una delle più alte Istituzioni della Repubblica come formazione sociale, evidenziando – se ce ne fosse ancora bisogno – che la Fnsi, Federazione Nazionale della Stampa Italiana, non può più essere considerata, dopo oltre un secolo, come il sindacato unico dei giornalisti italiani. L’incontro con la 2ª Commissione Giustizia del Senato rappresenta la prima tappa di una serie di confronti tra la Figec Cisal e le massime istituzioni rappresentative del Paese che proseguiranno nei prossimi mesi. Nell’incontro, il componente della Giunta Esecutiva e coordinatore del Gruppo Cronisti della Figec Cisal, Pierluigi Roesler Franz, ha illustrato ai senatori quanto riportato in dettaglio in un’ampia memoria scritta, ovvero i principali temi sul tappeto riguardanti la diffamazione a mezzo stampa, radio, tv e online, nonché le querele temerarie, oggetto di cinque diversi disegni di legge presentati da vari partiti (nn. 81, 95, 466, 573 e 616). Il documento della Figec Cisal è stato poi consegnato al presidente della Commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, al termine della seduta.

Roesler Franz ha, innanzitutto, ricordato che ben 146 anni fa nacque in Italia il primo sindacato dei giornalisti, l’Aspi (Associazione della Stampa Periodica Italiana), a seguito del duello a colpi di sciabola svoltosi a Roma, la sera del 16 maggio 1877, a causa di un articolo ritenuto diffamatorio. La sfida si concluse rapidamente al terzo assalto e finì per fortuna in modo incruento. Fu vinta dall’onorevole Augusto Pierantoni (avvocato, deputato radicale per molte legislature e genero dell’allora ministro della  Giustizia, Pasquale Stanislao Mancini) che, alto come un corazziere, ferì in allungo all’avambraccio il giornalista e resocontista parlamentare del “Fanfulla” Fedele Albanese.
La Figec Cisal ha, poi, auspicato che il Parlamento provi a cambiare passo, prospettiva e impostazioni partendo finalmente da un ovvio presupposto, cioè che anche i giornalisti iscritti all’Ordine professionale, in applicazione del celebre motto latino “errare humanum est, sed perseverare autem diabolicum”, possono sbagliare in buona fede così come tutti gli altri esseri umani e come le altre categorie di professionisti lavoratori autonomi iscritti nei rispettivi Ordini.

Questi i principali punti esposti dalla Figec Cisal alla Commissione Giustizia e inseriti nella memoria consegnata al Senato:

– Dolo specifico, e non generico;
– Rettifica di un articolo ritenuto denigratorio dell’onore e/o della reputazione;
– Assurdità dei 2 diversi termini oggi esistenti per presentare, da un lato, querela per diffamazione a mezzo stampa (90 giorni) e, dall’altro, causa civile di risarcimento danni da diffamazione (5 anni o addirittura 10 anni);
– Irragionevole durata dei processi di diffamazione;
– Danno da diffamazione non assicurabile.

Attualmente, affinché si possa configurare il reato di diffamazione è sufficiente un dolo generico: in recepimento della giurisprudenza Cedu è auspicabile una riforma che introduca il requisito di un dolo specifico, ovvero la volontà di diffamare o la colpa grave (ad esempio per mancanza di verifica della notizia), rendendo non punibili gli errori commessi in buona fede tenendo anche conto che giovani giornalisti collaboratori, precari e free lance e molti cronisti anche non più giovani non godono più delle retribuzioni di una volta, ma vengono oggi sottopagati e retribuiti con neppure 2/3 euro ad articolo e che il mondo dell’editoria sta attraversando la più grave crisi della sua storia, esplosa da circa una quindicina d’anni con un crollo di vendite della carta stampata e la chiusura definitiva o addirittura la scomparsa di migliaia di edicole in tutta Italia.

Nel corso dell’audizione è stato, in proposito, ricordato quanto sostenuto da Alessandro Galimberti, del Gruppo Cronisti Figec ed ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, secondo cui: «È esperienza comune – e statistica giudiziaria – che la stragrande maggioranza dei procedimenti per diffamazione, quando non pretestuosi o meramente minatori nelle intenzioni del querelante, dipendono da errori o incompletezze nell’individuazione della fonte o nel reperimento dei documenti da parte del giornalista, o da una negligente analisi, o ancora dal cattivo governo delle regole deontologico/professionali. Tutte queste ipotesi, come si può notare, dal punto di vista penalistico darebbero origine a contestazioni “colpose” cioè, con il relativo downgrade delle sanzioni, a partire dalla cancellazione di quella carceraria».
In pratica, si è quindi proposto al Senato di applicare ai giornalisti le stesse regole codicistiche e di legge che disciplinano l’attività di medici, ingegneri, architetti, geometri, avvocati, notai, dottori commercialisti, ragionieri, periti commerciali, consulenti del lavoro, ecc. .Di conseguenza, i giornalisti non dovrebbero più restare isolati a fronteggiare in sede civile richieste stratosferiche di risarcimento danni da diffamazione e neppure assicurabili presso alcuna compagnia di assicurazione a livello mondiale, se non limitatamente alle parcelle dei propri legali per poter essere almeno difesi ex art. 24 della Costituzione in vertenze giudiziarie che in Italia, purtroppo, hanno tempi biblici per la loro definizione (persino 24 anni dai fatti) e che sono anche determinate dalla possibilità per i presunti diffamati di restare in silenzio fino a ben 5 anni (o addirittura 10 anni anche se in casi più circoscritti) prima di rivendicare un indennizzo da diffamazione a mezzo stampa. La Figec Cisal ha proposto, quindi, di fissare in 6 mesi dalla pubblicazione dell’articolo il termine di prescrizione per poter iniziare nei confronti dell’editore un’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione e di concedere ulteriori 6 mesi nei confronti di direttori, vicedirettori, capi redattori, inviati speciali, capi servizio, redattori e collaboratori. In tal modo i giornalisti, per potersi difendere adeguatamente in tribunale, avrebbero a disposizione complessivamente un anno di tempo dalla pubblicazione dell’articolo ritenuto diffamatorio.

Il sistema attuale appare, invece, del tutto irragionevole, irrazionale e scriteriato nonché di dubbia costituzionalità perché, oltre a discriminare gravemente i giornalisti dalle altre categorie di professionisti, finisce paradossalmente per favorire forme di intimidazione e di condizionamento – anche malavitose – che costituiscono, però, veri e propri bavagli alla libertà di stampa, garantita dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu, allo stesso modo degli assurdi bavagli per i cronisti di “nera” e di “giudiziaria” conseguenti all’entrata in vigore un anno e mezzo fa del Decreto legislativo n. 188 del 2021 sulla presunzione di non colpevolezza, e meglio noto alle cronache come “decreto Cartabia”. I cittadini hanno, infatti, diritto ad una corretta e completa informazione, come da ultimo prevede anche l’articolo 4, primo comma, del decreto legislativo sulla radiotelevisione n. 208 dell’8 novembre 2021, che stranamente non è stato però richiamato in alcuno dei 5 disegni di legge attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato.

E pensare che l’11 dicembre 2019, nella conferenza stampa subito dopo la sua elezione a presidente della Corte Costituzionale (prima donna nella storia),  la professoressa Marta  Cartabia (poi nominata ministro della Giustizia), affermò che  «il  ruolo  de i giornalisti  e degli operatori dell’informazione é sempre stato importantissimo – ma in questi tempi lo é ancora di più» e che oggi é fondamentale avere «un’informazione corretta, completa, trasparente, integra, genuina, autentica, in una parola professionale, tenendo ben distinti i fatti dalle opinioni»! La Figec Cisal ha, poi, proposto modifiche e/o integrazioni, nonché nuove norme riguardanti altri importanti aspetti della problematica della diffamazione.

MANLEVA DELL’EDITORE E RISCHIO D’IMPRESA. Fino al 1988 vi era un patto non scritto tra tutti i giornalisti, radio, tv e giornali, una sorta di gentleman agreement, in base al quale l’editore si accollava per intero l’onere di una condanna per diffamazione in sede civile. Da allora – e sono trascorsi 35 anni – gli editori hanno cambiato strategia, rivalendosi sempre sugli autori degli articoli soprattutto se essi hanno nel frattempo lasciato l’azienda o sono andati in pensione o hanno avuto dei diverbi con la proprietà del giornale (molto frequente é il caso dei direttori).

Ma da parte degli editori non ci si é forse dimenticati del cosiddetto “rischio d’impresa” e dell’articolo 11 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948 n. 47 che prevede che «Per  i  reati  commessi  col  mezzo  della  stampa  sono civilmente responsabili,  in  solido  con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore» ?
Purtroppo, questo delicatissimo problema, accennato solo di sfuggita negli ultimi contratti collettivi nazionali di lavoro giornalistico, ma senza alcun concreto risultato, non é stato minimamente affrontato nei 5 diversi disegni di legge sulla diffamazione. Ed é anche rimasto insoluto il problema della ripartizione delle singole responsabilità da parte dei giornalisti coinvolti (collaboratori, redattori, capi servizio, inviati speciali, capi redattori, direttori e vicedirettori) in merito anche ai titoli ritenuti diffamatori qualora passi troppo tempo prima di essere processati.
Eppure, c’é in ballo il dovere dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini di disporre di una corretta e completa informazione, perché é di tutta evidenza che, per evitare il rischio di una condanna ad un rilevante indennizzo per diffamazione, un giornalista sia tentato dall’ignorare una notizia piuttosto che rischiare di pagare di tasca propria un risarcimento o di vedersi pignorare e sequestrare i suoi conti bancari, la casa o i mobili della sua abitazione.

COMPETENZA TERRITORIALE PER LA DIFFAMAZIONE. Si assiste oggi ad una grande confusione in tema di competenza territoriale relativa alle vertenze connesse al contenzioso giudiziario civile riguardante le richieste di indennizzo da diffamazione. Una delle maggiori novità degli attuali disegni di legge che la Figec Cisal ritiene di non poter assolutamente condividere è quella che fissa la competenza per tutti i processi per diffamazione con qualunque mezzo commessa nel luogo in cui risiede il querelante. Viceversa tutti i processi per  diffamazione  (a mezzo web, a mezzo televisione per fatto determinato, a mezzo televisione se il fatto non è determinato e a mezzo stampa) vanno unificati esclusivamente presso il giudice del luogo dove si stampa il giornale o da cui venga irradiata la trasmissione o dove sia registrata la testata web. Peraltro, se si individuasse la competenza territoriale per tutti i media in base al luogo di registrazione della testata giornalistica o la testata web verrebbe incentivata la registrazione delle testate, che costituisce anche una garanzia per la qualità e la correttezza dell’informazione. La Figec Cisal sottolinea i rischi legati alla nuova formulazione della competenza territoriale della giurisdizione nel luogo di residenza del querelante, che oltre a compromettere il principio del giudice naturale precostituito per legge (con il rischio di moltiplicazione dei processi per  lo  stesso articolo e la conseguente contraddittorietà di giudicati) espone il giudizio ai condizionamenti ambientali nei casi, sempre più frequenti, in cui il querelante sia legato da una rete di relazioni capaci di influenze sul territorio. Occorre, invece, rafforzare i principi fissati in sede europea a tutela della libertà di informazione.

SANZIONI PECUNIARIE SPROPORZIONATE. Appare opportuno un ripensamento complessivo e ben bilanciato degli importi soprattutto nei minimi edittali delle sanzioni pecuniarie da versare alla Cassa delle Ammende. In particolare, dovranno essere attentamente ricalibrate le misure pecuniarie alternative alla detenzione perché altrimenti i giornalisti cadrebbero “dalla padella nella brace” e la nuova normativa, attesa da svariati decenni, finirebbe per risultare addirittura peggiorativa rispetto a quella attuale che prevede ancora il carcere. Infatti, nella categoria dei giornalisti sono già molti i cronisti e i direttori che, paradossalmente, preferirebbero tenersi ben stretta la normativa attuale che prevede ancora il carcere – anche se per casi più limitati – proprio perché non potrebbero far fronte, come numerosi editori, al pagamento congiunto delle pesanti sanzioni alla Cassa delle Ammende e dell’indennizzo in favore delle persone. Infatti, gli importi proposti in alcuni dei 5 disegni di legge appaiono del tutto sproporzionati e in aperta violazione della giurisprudenza della Cedu, che ha più volte segnalato come incompatibile con l’articolo 10 della Convenzione europea, l’aumento delle sanzioni pecuniarie senza prevedere alcuna proporzionalità, in riferimento alla capacità economica sia dell’impresa che del giornalista, mentre «le sentenze della Corte europea evidenziano come una sanzione economica troppo pesante possa dissuadere il giornalista dal continuare a svolgere il suo lavoro». Una simile norma costituirebbe «un bavaglio per tanti colleghi che non hanno un contratto di lavoro dipendente e che devono fare affidamento solo sulla loro capacità economica». Per di più se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad autorità le pene vengono ulteriormente aumentate, creando cittadini di serie A e cittadini di serie B. Insomma. sarebbe come se il legislatore dicesse: «scrivete di tutto, ma se scrivete di corpi politici l’eventuale pena sarà più alta».

QUERELE BAVAGLIO E LITI TEMERARIE ANCHE PER ARTICOLI ONLINE RIMBORSO DELLE SPESE PER PARCELLE DEGLI AVVOCATI DIFENSORI. Non è più rinviabile l’adozione di una norma a tutela dei giornalisti rispetto al fenomeno delle cosiddette querele temerarie (o “bavaglio”) che preveda una pena pecuniaria adeguata (che potrebbe essere quantificata in una somma pari a quella prevista per la diffamazione), per chi presenti querele senza alcun fondamento. Fatta salva la possibilità per il giornalista di chiedere il risarcimento del danno. Un’altra norma che va corretta, perché appare del tutto iniqua e incongrua, è quella che devolve alla Cassa Ammende, e non a favore di chi viene querelato ingiustamente, le somme poste a carico del querelante per querela temeraria. È anche necessario prevedere che un giornalista assolto in via definitiva da una querela pretestuosa e/o temeraria possa ottenere il rimborso delle parcelle del proprio avvocato difensore per tutti e tre i gradi di giudizio. Altrimenti, soprattutto pubblicisti, freelance, precari e giornalisti che lavorano per piccole testate, potrebbero scegliere di non scrivere più notizie ritenute scomode. Ma ciò impedirebbe poi ai cittadini di essere compiutamente e correttamente informati con conseguente violazione dell’articolo 21 della Costituzione, in quanto le querele pretestuose ed infondate, anche per effetto della lunga durata dei processi che ne conseguono, finiscono per rappresentare uno strumento di grave censura ed un inaccettabile bavaglio alla libertà di stampa.

ABROGAZIONE DELL’ART. 12 DELLA LEGGE SULLA STAMPA. Per la Figec Cisal va abrogato l’art. 12 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948 n. 47 “Riparazione pecuniaria” che prevede oggi che: «Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato».

NO AD INTERDIZIONE O SOSPENSIONE DI UN GIORNALISTA DA PARTE DEL GIUDICE CIVILE O PENALE. Secondo la Figec Cisal il giudice penale non può assolutamente sanzionare con l’interdizione o la sospensione dall’esercizio della professione un giornalista condannato in via definitiva per diffamazione a mezzo stampa. In tal caso il giudice dovrebbe, invece, trasmettere obbligatoriamente gli atti al Consiglio di Disciplina, istituito sin dal 2012 presso ogni Ordine regionale dei giornalisti territorialmente competente, che è vigilato dal Ministero della Giustizia. Altrimenti si verrebbe a determinare un’ingiustificata ingerenza nell’autonomia degli organismi della professione. Il giornalista deve, infatti, rispettare anche delle rigorose norme deontologiche previsti dal vigente “Testo Unico dei Doveri del giornalista”. Si ricorda in proposito che la Cassazione, in una sentenza di ben 37 anni fa, sancì che l’interdizione di un giornalista come pena accessoria di una condanna per diffamazione non può essere automatica da parte del giudice.

RIDUZIONE DA 5 A 3 DEI GRADI DI GIUDIZIO DISCIPLINARE. Per la Figec Cisal è urgente che il Parlamento riduca con legge a soli tre gradi il giudizio disciplinare nei confronti di un giornalista professionista, praticante o pubblicista (CDT – Consiglio di Disciplina Territoriale, CDN – Consiglio di Disciplina Nazionale e Cassazione civile per le sole violazioni di legge). Oggi assurdamente sono, invece, addirittura ben cinque i gradi del giudizio disciplinare di un giornalista (CDT, CDN, tribunale civile in composizione integrata da un giornalista, Corte d’appello civile in composizione integrata da un giornalista e Cassazione civile)!

GIURÌ D’ONORE. Si potrebbe eventualmente creare una sorta di “Giurì d’onore” in seno all’Ordine nazionale dei giornalisti: organismo composto da giornalisti con determinati requisiti, con funzioni di intervento rapido (equiparabili ad una mediazione obbligatoria) per i casi di urgenza, fermo restando le competenze dei Consigli di disciplina.

SEGRETO PROFESSIONALE DEL GIORNALISTA. Si condivide poi pienamente quanto previsto in alcuni disegni di legge all’esame della Commissione Giustizia per consentire ai giornalisti pubblicisti di potersi finalmente avvalere di quanto già previsto dall’articolo 200 del codice di procedura penale per i giornalisti professionisti, cioè di poter invocare davanti al giudice il segreto professionale. Va, comunque, ricordato che di fatto, però, questa equiparazione è già operativa da tempo per effetto di numerose sentenze della Cedu direttamente applicabili anche in Italia. Va, invece, espunta dall’art. 200 cpp, terzo comma, la possibilità  che  – a  differenza  di quanto previsto per gli avvocati – il giudice possa ordinare ai giornalisti professionisti (e quindi di riflesso anche ai pubblicisti)  di  indicare la fonte delle proprie informazioni.

CAUSE DI DIFFAMAZIONE ESENTASSE. Tra le tante anomalie della diffamazione c’é anche quella che stranamente consente a chi vince davanti al tribunale civile una causa di diffamazione di non pagare sull’indennizzo che riceve neppure un euro di tasse. È giusto così? Non è, forse, un privilegio che danneggia gravemente l’Erario e che costituisce un incentivo a far causa di diffamazione?

INDENNIZZO AI MAGISTRATI DA DEVOLVERE ALLE VITTIME DELLE MAFIE. Una ventina d’anni fa lo scomparso professor Vincenzo Caianiello, allora presidente della Corte Costituzionale ed ex Ministro della Giustizia nel governo Dini, lanciò la proposta che gli indennizzi da diffamazione ottenuti dai magistrati in sede civile dovessero essere devoluti in beneficienza alle vittime della mafia, della camorra e della ’ndrangheta, proprio perché i magistrati non potevano aver subito alcun danno patrimoniale da una diffamazione avendo ricevuto regolarmente lo stipendio dallo Stato. Ebbene questa proposta é poi rimasta lettera morta. Nel frattempo, però, si sono moltiplicate le cause civili di risarcimenti danni da diffamazione intentate dai magistrati italiani.

REATO DI OSTACOLO ALL’ATTIVITÀ GIORNALISTICA PER TUTELARE I GIORNALISTI MINACCIATI. Al fine di tutelare il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti minacciati va anche introdotto dal Parlamento un nuovo reato, quello di “ostacolo all’attività giornalistica”.  Si propone di introdurre la seguente disposizione di legge: “Chiunque, per limitare o impedire la ricerca, la raccolta, la ricezione, l’elaborazione, il controllo, la pubblicazione o la diffusione di informazioni, opinioni o idee di interesse pubblico, utilizza violenza, minaccia o frode in danno di soggetti esercenti l’attività giornalistica, è punito con la reclusione da due a sei anni”.

La norma, condivisa dalla Figec Cisal, è frutto del lavoro di un gruppo di giornalisti, giuristi, magistrati e costituzionalisti. E si radica e trae origine non solo dall’articolo 21 della Costituzione, ma anche dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dall’articolo 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. E si richiama, peraltro, alla normativa già approvata dal Parlamento con Legge 14 agosto 2020 n. 113, recante “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 9 settembre 2020 n. 224.